mercoledì 28 gennaio 2015

Vivere E Morire




Nascita e morte. 
E’ racchiusa tra queste due parole la nostra parentesi sulla Terra.
Semplice, lineare.
Nascita e morte. Esattamente come ogni altro organismo vivente.

Ma noi siamo animali strani, e quindi arriviamo a considerare la nostra vita qualcosa di più importante, di più speciale. Di più rispetto, e a dispetto, di qualsiasi altra forma di vita.
(Ok, in larga parte. Ci sono delle minoranze con qualche briciolo di coscienza, lo so. Ma sono minoranze.)
Il perché noi guardiamo a noi stessi come ad esseri speciali forse è materia per filosofi e antropologi, anche se qualche psichiatra non guasterebbe, e quindi lascio a loro le congetture e le conclusioni.
Qui, invece, io mi voglio occupare d’altro.

Quando nasciamo noi siamo cuccioli indifesi capitati in questo mondo per caso o per volontà dei nostri genitori. Da quel momento in poi, per lungo tempo, dipendiamo da essi e dalla loro capacità di assicurarci una buona crescita e un habitat sicuro (e spesso da altri fattori esterni condizionanti). Abbiamo il diritto di vivere, in sintesi. E, soprattutto, di vivere nel modo migliore possibile.
E’ un assunto che non accetta condizioni.
Nello stesso modo in cui abbiamo il diritto di vivere, così abbiamo il diritto di morire.
E anche il dovere.
E’ brutto, lo so. A nessuno piace pensare alla morte.
Il problema nasce dal fatto che nella nostra società (in modo particolare quella occidentale) esiste un vero e proprio concetto sbagliato di morte.
Insegniamo ai nostri bambini ad avere paura della morte, come se fosse una cosa orrenda che succede se fai qualcosa di sbagliato. E quando essi diventano adulti, come noi, rimangono atterriti dall’idea della morte come se fosse uno spauracchio da esorcizzare, un mostro da combattere, un male da evitare.
Non è così.

Il ciclo della vita comprende tre fasi: nascita, esistenza, morte.
Punto.
C’è poco da sorprendersi, l’universo funziona così, che piaccia oppure no.
Parlo dell’universo non a caso.
Tutto, nell’universo, ha un suo percorso che non è diverso da quello di noi umani, ma noi dimentichiamo spesso un principio enunciato da Lavoisier:
“Nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma.”
Pertanto, la morte non è un orribile cosa che giunge per sopprimere e cancellare la nostra esistenza, ma soltanto un naturale processo per la fine di un ciclo.
E’ chiaro, da qui in poi si potrebbero aprire dibattiti sull’anima, sullo spirito e su altre cose, ma non è questo che intendo fare. Se vi va, potete farle da voi queste riflessioni.

Prima ho parlato di diritto e dovere di morire.
E’ la verità, che piaccia o meno.
Così come dobbiamo vivere, dobbiamo morire. Non possiamo, e soprattutto non dobbiamo, stravolgere questo stato di cose. Che senso avrebbe?
Vivere per sempre? E per quale motivo?
Possiamo vivere più a lungo, possiamo migliorare la qualità della nostra vita, ma poi, infine, è giusto che il ciclo finisca.
Quello a cui voglio giungere con questo lungo discorso, è una cosa delicata.
Molto delicata per quella parte di nozioni che appartengono alla morale comune.

Se è vero, come è vero, che in teoria (su questo fate una riflessione sulle popolazioni del terzo mondo) noi tendiamo a volerci assicurare una buona qualità della vita, lo stesso non si può dire sulla qualità della nostra dipartita.
Ci sono dei casi in cui il modo in cui si muore ha molta importanza, ed è legato a stretta mandata con la qualità della vita.
Per capire questo c’è bisogno di esempi.
Una persona colpita da una malattia invalidante che la renda inabile al punto tale da non essere più autosufficiente, e che in questa condizione rimarrà fino alla sua fine, ha il diritto di poter essere curata, assistita, controllata in ogni momento. E’ un suo diritto, come ho detto, e la società ha il dovere di assicurargli tutto questo.
Se questa persona, però,  in grado intendere e volere, non volesse più vivere in simili condizioni?
Se smettesse di volere un’esistenza privata di tutto quello che dona dignità ad un individuo?
Non scaldatevi tanto.
Pensate sia semplice diventare veri e propri schiavi di un corpo che non risponde più?
Riflettete su cosa vorrebbe dire non poter essere in grado di mangiare, bere, muoversi, andare in bagno, lavarsi senza l’ausilio di un aiuto esterno.
Una condizione dove persino comunicare senza l’aiuto di apparecchi sia impossibile.
Se una persona così volesse morire, dire basta, chiedere di essere lasciata andare, che male ci sarebbe? Soprattutto, dove sarebbe il male?
Forse ci opponiamo perché la nostra morale ipocrita non accetta di andare contro le leggi del divino? Perché pare che sia spesso il fattore religioso a fare da ago della bilancia.
Laddove non c’è, si sente spesso parlare, comunque, di diritto alla vita.
Diritto?
Qui non si parla di omicidio, come qualche titolato scriteriato vorrebbe metterla.
Quando una persona gravemente malata muore, non diciamo spesso che “ha finito di soffrire”?
E allora, perché non consentire a chi lo vuole di porre fine ad una sofferenza inutile?
A chi lo vuole, ho detto, non a tutti indiscriminatamente!

Qualcuno ha detto che l’eutanasia è disumana.
Ed è umano volere che qualcuno rimanga paralizzato in un letto fino alla fine dei suoi giorni, per di più contro la sua stessa volontà? E’ umano obbligarlo a rimanere prigioniero di un corpo che non funziona più?
Avete mai dato un’occhiata sul dizionario alla voce eutanasia?
Vi aiuto io:
Eutanasia – morte non dolorosa provocata in caso di prognosi infausta e di sofferenze ritenute intollerabili.
E poi parliamo di diritti umani…
Come sempre, ci dimostriamo insensati nei nostri giudizi e nei nostri convincimenti.
Avere il diritto di vivere è qualcosa di intoccabile, ma altresì il diritto ad una morte dignitosa è ancora più importante.
La nostra società si riempie la bocca con la storia dei diritti, con i precetti della chiesa, con la filosofia della vita e come sempre lo fa guardando un solo lato della medaglia.
Si parla di vita, senza guardare agli altri aspetti ad essa legata.

…sofferenze ritenute intollerabili…
Io non vorrei essere, un giorno, nelle mani di chi decide per me se devo soffrire o no e se si, per quanto tempo. E non vorrei che nessuno di quelli che amo si trovasse in una situazione simile.
Non c’è senso alcuno nel voler forzare un’esistenza che ha smesso di avere significato. Questo si che sarebbe disumano.
Ed aggiungo che è disumano, pensatela come vi pare, permettere che ci si svegli da un coma di anni e anni in uno stato semi-vegetativo per poi sopravvivere in uno stato di semi-esistenza.
Non è un inno alla vita, ma puro egoismo.

Noi nasciamo, esistiamo, moriamo.
Dovremmo occuparci con eguale civiltà di ognuno di questi aspetti.

Dovremmo… ahimè.




Alla prossima




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