Nascita e morte.
E’ racchiusa
tra queste due parole la nostra parentesi sulla Terra.
Semplice,
lineare.
Nascita e
morte. Esattamente come ogni altro organismo vivente.
Ma noi siamo
animali strani, e quindi arriviamo a considerare la nostra vita qualcosa
di più importante, di più speciale. Di più
rispetto, e a dispetto, di qualsiasi altra forma di vita.
(Ok, in larga
parte. Ci sono delle minoranze con qualche briciolo di coscienza, lo so. Ma
sono minoranze.)
Il perché noi
guardiamo a noi stessi come ad esseri speciali forse è materia
per filosofi e antropologi, anche se qualche psichiatra non guasterebbe, e
quindi lascio a loro le congetture e le conclusioni.
Qui, invece,
io mi voglio occupare d’altro.
Quando
nasciamo noi siamo cuccioli indifesi capitati in questo mondo per caso o per
volontà dei nostri genitori. Da quel momento in poi, per lungo tempo,
dipendiamo da essi e dalla loro capacità di assicurarci una buona crescita e un
habitat sicuro (e spesso da altri fattori esterni condizionanti). Abbiamo il
diritto di vivere, in sintesi. E, soprattutto, di vivere nel modo migliore
possibile.
E’ un assunto
che non accetta condizioni.
Nello stesso
modo in cui abbiamo il diritto di vivere, così abbiamo il diritto di morire.
E anche il
dovere.
E’ brutto, lo
so. A nessuno piace pensare alla morte.
Il problema
nasce dal fatto che nella nostra società (in modo particolare quella
occidentale) esiste un vero e proprio concetto sbagliato di morte.
Insegniamo ai
nostri bambini ad avere paura della morte, come se fosse una cosa orrenda che
succede se fai qualcosa di sbagliato. E quando essi diventano adulti, come noi,
rimangono atterriti dall’idea della morte come se fosse uno spauracchio da
esorcizzare, un mostro da combattere, un male da evitare.
Non è così.
Il ciclo della
vita comprende tre fasi: nascita, esistenza, morte.
Punto.
C’è poco da sorprendersi, l’universo funziona così, che piaccia oppure no.
C’è poco da sorprendersi, l’universo funziona così, che piaccia oppure no.
Parlo
dell’universo non a caso.
Tutto,
nell’universo, ha un suo percorso che non è diverso da quello di noi umani, ma
noi dimentichiamo spesso un principio enunciato da Lavoisier:
“Nulla si
crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma.”
Pertanto, la
morte non è un orribile cosa che giunge per sopprimere e cancellare la nostra
esistenza, ma soltanto un naturale processo per la fine di un ciclo.
E’ chiaro, da
qui in poi si potrebbero aprire dibattiti sull’anima, sullo spirito e su altre
cose, ma non è questo che intendo fare. Se vi va, potete farle da voi queste
riflessioni.
Prima ho
parlato di diritto e dovere di morire.
E’ la verità,
che piaccia o meno.
Così come
dobbiamo vivere, dobbiamo morire. Non possiamo, e soprattutto non dobbiamo,
stravolgere questo stato di cose. Che senso avrebbe?
Vivere per
sempre? E per quale motivo?
Possiamo
vivere più a lungo, possiamo migliorare la qualità della nostra vita, ma poi,
infine, è giusto che il ciclo finisca.
Quello a cui
voglio giungere con questo lungo discorso, è una cosa delicata.
Molto delicata
per quella parte di nozioni che appartengono alla morale comune.
Se è vero,
come è vero, che in teoria (su questo fate una riflessione sulle popolazioni
del terzo mondo) noi tendiamo a volerci assicurare una buona qualità della
vita, lo stesso non si può dire sulla qualità della nostra dipartita.
Ci sono dei
casi in cui il modo in cui si muore ha molta importanza, ed è legato a stretta
mandata con la qualità della vita.
Per capire
questo c’è bisogno di esempi.
Una persona
colpita da una malattia invalidante che la renda inabile al punto tale da non
essere più autosufficiente, e che in questa condizione rimarrà fino alla sua
fine, ha il diritto di poter essere curata, assistita, controllata in ogni
momento. E’ un suo diritto, come ho detto, e la società ha il dovere di
assicurargli tutto questo.
Se questa
persona, però, in grado intendere e
volere, non volesse più vivere in simili condizioni?
Se smettesse
di volere un’esistenza privata di tutto quello che dona dignità ad un
individuo?
Non scaldatevi
tanto.
Pensate sia
semplice diventare veri e propri schiavi di un corpo che non risponde più?
Riflettete su
cosa vorrebbe dire non poter essere in grado di mangiare, bere, muoversi,
andare in bagno, lavarsi senza l’ausilio di un aiuto esterno.
Una condizione
dove persino comunicare senza l’aiuto di apparecchi sia impossibile.
Se una persona
così volesse morire, dire basta, chiedere di essere lasciata andare, che male
ci sarebbe? Soprattutto, dove sarebbe il male?
Forse ci
opponiamo perché la nostra morale ipocrita non accetta di andare contro le
leggi del divino? Perché pare che sia spesso il fattore religioso a fare da ago
della bilancia.
Laddove non
c’è, si sente spesso parlare, comunque, di diritto alla vita.
Diritto?
Qui non si
parla di omicidio, come qualche titolato scriteriato vorrebbe metterla.
Quando una
persona gravemente malata muore, non diciamo spesso che “ha finito di
soffrire”?
E allora,
perché non consentire a chi lo vuole di porre fine ad una sofferenza inutile?
A chi lo
vuole, ho detto, non a tutti indiscriminatamente!
Qualcuno ha detto che l’eutanasia è disumana.
Ed è umano
volere che qualcuno rimanga paralizzato in un letto fino alla fine dei suoi
giorni, per di più contro la sua stessa volontà? E’ umano obbligarlo a rimanere
prigioniero di un corpo che non funziona più?
Avete mai dato
un’occhiata sul dizionario alla voce eutanasia?
Vi aiuto io:
Eutanasia –
morte non dolorosa provocata in caso di prognosi infausta e di sofferenze
ritenute intollerabili.
E poi parliamo
di diritti umani…
Come sempre,
ci dimostriamo insensati nei nostri giudizi e nei nostri convincimenti.
Avere il
diritto di vivere è qualcosa di intoccabile, ma altresì il diritto ad una morte
dignitosa è ancora più importante.
La nostra
società si riempie la bocca con la storia dei diritti, con i precetti della
chiesa, con la filosofia della vita e come sempre lo fa guardando un solo lato
della medaglia.
Si parla di
vita, senza guardare agli altri aspetti ad essa legata.
…sofferenze
ritenute intollerabili…
Io non vorrei
essere, un giorno, nelle mani di chi decide per me se devo soffrire o no e se
si, per quanto tempo. E non vorrei che nessuno di quelli che amo si trovasse in
una situazione simile.
Non c’è senso
alcuno nel voler forzare un’esistenza che ha smesso di avere significato.
Questo si che sarebbe disumano.
Ed aggiungo
che è disumano, pensatela come vi pare, permettere che ci si svegli
da un coma di anni e anni in uno stato semi-vegetativo per poi sopravvivere in
uno stato di semi-esistenza.
Non è un inno
alla vita, ma puro egoismo.
Noi nasciamo,
esistiamo, moriamo.
Dovremmo
occuparci con eguale civiltà di ognuno di questi aspetti.
Dovremmo… ahimè.
Alla prossima