Da bambino assistevo in silenzio ai
racconti del mio papà. Mi stupivo di quante cose avesse fatto e di quanti
luoghi avesse visto. Rimanevo incantato.
Solo con gli anni della maturità ho
compreso quanto avesse imparato, e la meraviglia è aumentata.
Tanti, che come lui avevano attraversato
la guerra, si erano persi in pensieri di odio perpetuo; avevano abbandonato la
strada che portava verso la tolleranza e l’accettazione che esiste qualcuno
diverso da te. Ma lui no. Nonostante quel che aveva passato.
Il mondo che aveva visto era diviso tra
luci e ombre. Simile a quello che vediamo oggi.
Simile, non uguale.
Io cammino qui. Tra le macerie di quello
che poteva essere e non è stato.
Non posso tornare indietro nel tempo e
cambiare gli avvenimenti che ci hanno portato fin qui. Sono troppi. Una serie
di eventi che si sono collegati tra loro e a cui non si può imputare nessuna
origine, se non quella della scelleratezza umana.
Ma tra queste macerie devo vivere, non ho
alternativa.
Qua e là posso scorgere qualche fiore
nascere, malgrado tutto, ma non sono certo che sia sufficiente a sedare la mia
profonda delusione. Il mio rammarico.
Quanto tempo passato a credere che
potessimo cambiare…
Il mio papà sarebbe morto di crepacuore
osservando cosa abbiamo fatto. Quanto abbiamo dimenticato, come ci siamo
ridotti, cosa siamo diventati.
Io, come figlio e come uomo, mi vergogno.
Mi vergogno di non essere stato
all’altezza di chi ha sacrificato tanto per tentare di costruire qualcosa di
buono. Perché gente illuminata ne abbiamo avuta, ma non l’abbiamo ascoltata.
Abbiamo seguito i fanatismi religiosi, le strade del profitto assoluto,
l’indifferenza verso la sofferenza, la politica dell’ego e del potere.
Ai margini delle nostre vite, poco
considerati e a malavoglia osservati, abbiamo lasciato i colori e i profumi
delle arti e delle filosofie, della cultura e del sapere.
Ci siamo appropriati di quanto serviva per
compiacerci e nulla più.
E dove ci ha portati tutto questo?
A niente.
Perché davvero non abbiamo niente.
Ci scanniamo l’un l’altro senza sosta per un pugno di polvere. Parliamo ancora di Dio e di Libertà, ma se il primo è una domanda, la seconda è una chimera.
Ci scanniamo l’un l’altro senza sosta per un pugno di polvere. Parliamo ancora di Dio e di Libertà, ma se il primo è una domanda, la seconda è una chimera.
Io mi vergogno del sangue che mi scorre
tra le mani.
E osservo i cumuli di cadaveri che anche
io ho contribuito ad ammassare, con il mio silenzioso assenso. Morti che furono
persone, vicine e lontane. Con le loro vite speciali e diverse. Non numeri.
Persone.
Io mi vergogno di non aver urlato
abbastanza per tentare di fermare l’oceano di odio che si diffondeva. Lo stesso
odio che alimenta senza freno ogni passo che muoviamo.
L’odio per il diverso, per il non
conforme.
Eppure potevamo fare qualcosa. Abbiamo
avuto gli strumenti in mano. Abbiamo avuto le possibilità. Abbiamo avuto le
chiavi della svolta.
Abbiamo fatto finta di niente. Troppo
grande il desiderio di avere e possedere, invece di essere e divenire.
Quanto mi vergogno… e lo faccio per tutti,
anche per quelli che si sono sempre nascosti dietro a un posticcio «Cosa
c’entro, io?»; tutti i buonisti dell’ultima ora, tutti i teorici
dell’uguaglianza, tutti i filosofi del bar sotto casa; ma anche tutti i
difensori del suolo patrio, delle tradizioni nostrane, dei “nostri valori”.
Mi
vergogno di tutti.
A parole siamo stati dei campioni di
giustizia, ma non siamo mai veramente scesi in strada per difendere quelle
parole che sembrano appartenere solo a noi e non ad altri.
Perché, sotto sotto, non ci è mai fregato
niente che migliaia di persone innocenti venissero sterminate in parti del
mondo troppo lontane per ricordarne la posizione su una cartina geografica.
Perché l’orrore ti gela il sangue solo
quando bussa alla tua porta.
Abbiamo ignorato per decenni segnali
allarmanti.
Povero papà…
Tu che dicesti «Sono andato alla ricerca
dell’Uomo», ricordando i tuoi lunghi viaggi, chissà cosa diresti ora. Gli
uomini dei tuoi tempi non erano tanto diversi da noi, presumo, ma ho davanti
agli occhi la tua espressione e mi sembra di scorgervi una speranza che,
purtroppo, è stata polverizzata.
Eri un illuminato? Un idealista? Un sognatore?
Tu che avevi vissuto in Africa, insieme a
una tribù del Tanganica; che avevi attraversato l’Asia fermandoti in Tibet, in
Pakistan, nella penisola indocinese; che eri stato nel deserto dividendo cibo e
acqua con i Tuareg e avevi ascoltato i passi del Corano nelle vicinanze del
Cairo.
Di quel mondo che i tuoi occhi avevano
visto e che le tue parole avevano portato a casa, cosa è rimasto?
Io mi vergogno.
Mi vergogno di non essere all’altezza
della parola Uomo. Mi vergogno di essere parte di questo grande teatro di
barbarie e inciviltà.
Mi vergogno della lacrima che ho versato
per i morti delle stragi in Europa, mentre molte erano richieste per le altre
vittime e io non le ascoltavo.
Mi vergogno di essere io stesso un mostro,
perché il richiamo della vendetta sommaria è dolce e sibillino e io lo ascolto.
Mi vergogno dei pensieri atroci che ho
avuto e che fanno il gioco voluto dai Grandi Artefici che si nascondono dietro
le quinte.
Quelli che non si mostrano mai come sono
realmente.
Eppure…
Eppure, niente.
Vorrei dire che ci voglio ancora credere,
ma non so se ne avrò la forza.
Vorrei tornare bambino e perdermi tra le
tue braccia. Per sentire la sicurezza dei tuoi ideali, la gentilezza del tuo
respiro, l’amore incondizionato che nutrivi per il prossimo, chiunque fosse e
qualsiasi colore avesse o fede professasse.
Invece sono solo un uomo che cammina tra
queste macerie. Senza fare niente.
E mi vergogno, per questo.
Rolando Cimicchi